Romana Loda
LA REALTA’ E IL DESIDERIO
Luglio 1992
Sanno e non sanno che cos’è agire e soffrire. Sanno e non sanno che agire è soffrire.
T.S. Eliot
In una delle sue rare dichiarazioni di poetica, Jackson Pollock ha scritto: “La pittura è uno stato dell’essere; è la scoperta di sé. Ogni buon artista dipinge ciò che è” . Affermazione certo non nuova, ne particolarmente originale, capace però nel suo caso di illuminare la determinazione ansiosa e autodistruttiva con cui ha perseguito un fare lontano dalle astrazioni intellettualistiche, seguendo un itinerario di aspra verità, capace di testimoniare la sua brama d’azione. Nello stesso ambito è pure rivelatoria una sua aperta ammissione contenuta in una lettera alla madre:”il mio problema non è cercare la vera arte, ma farla”. In ciò riecheggia il Picassiano io non cerco, trovo dal quale però è lontano , nella sostanza, per la totale mancanza di autocompiacimento. Il fare, nel caso di Pollock, è una scelta obbligatoria, indipendente dall’esito: realizzare ciò che è capace di immaginare, mentre la sua fantasia solca la galassia dell’assurdo. Agire per conoscere, attraverso gli strumenti dell’arte, da cui sono coagulati quei grumi di energia capaci di trasformare in rappresentazioni inquietanti le tele sterminate simili alle infinite pianure che attraversava nella sua memoria ancestrale.
Da allora l’artista non è più stato obbligato a cercare i soggetti al di fuori di se stesso e nemmeno a prendere come modello la natura mutevole; ha rappresentato ciò che trovava dentro se stesso, conscio che tutte le maree dell’oceano sono poca cosa rispetto agli incubi dell’individuo.
Questo preambolo ad una breve riflessione sul lavoro di Wanda Benatti è servito a semplificare il discorso sulle non poche affinità di base che caratterizzano il suo agire. Anche lei infatti dipinge per un affermazione primaria dello stato dell’essere e agisce in un presente atemporale che non è quello di un bambino o di un animale, ma quello dell’intermittenza della coscienza di quello che sta avvenendo. Non chè la sua sia pittura automatica, oppure che rinunci ad una programmazione delle composizioni; è piuttosto il risultato di un lento stratificarsi dei segni e dei colori nel corso di una navigazione contro corrente alla ricerca di una realtà altra del vivere, nell’ armonia totalizzante del contatto con la tela o il foglio. Una azione dominata non dall’ansia di definire, ma dalla nostalgia del sublime generata dalle pulsioni del desiderio.
Un percorrere le superfici, a volte violentandone i confini, che solo apparentemente è paragonabile all’agitazione insensata del nevrotico mentre subisce le sue ossessioni, perché in realtà lei le coltiva e le domina fino alla sublimazione catartica. E se nell’ opera finita aleggia a volte un senso di disperante compressione, ciò è dovuto esclusivamente al rifiuto dei rituali autoconsolatori oggi tanto diffusi, in pittura come in altre discipline. Per lei, e per pochi altri, riconoscersi artista è soprattutto accettarsi differente dalla folla senza volto, solitaria e afona, ma anche dalla minoranza onnipotente. È mettersi da parte non per snobismo intellettuale, ma per tentare la vertigine della verità, posta alla confluenza dei canali dell’amore che sfociano nella cloaca della realtà. Per questo le sue forme magmatiche non sopprimono il caos, ma, anzi, lo espongono alla luce fredda e spietata di una nuova presa di coscienza. Altre volte invece le sue forme in continuo divenire si placano all’improvviso nel raggiungimento di un miracoloso equilibrio e si inondano di colori caldi e pastosi, che ne stemperano ogni ansietà.
Non è ancora gioia liberata, questo no, ma piuttosto una malinconia depurata da ogni forma angosciante. È come il canto sommesso del viandante notturno che cerca di scacciare i fantasmi del buio: non la gioia lo genera, ma da lontano la sua nenia quieta e senza affanno, quasi dolce come una canzone d’amore.
Wanda Benatti riproduce soprattutto nelle sue opere tutte le forme dello sconforto e il suo cammino marcatamente evocativo accerchia la realtà con spirali sempre più strette, percorse senza badare alle lacerazioni che ne possono derivare. Alla fine trova sempre una zona nella densa oscurità, dove la luce si può ricevere ancora molto intensa. E’ un riaffiorare all’aperto dopo una lunga permanenza nel sottosuolo, con la gioia nel cuore e il dolore negli occhi contemporaneamente, in un’altalena coattiva, senza soluzioni di continuità. Per questo, in ultima analisi, il suo operare non è volto semplicemente a scrollarsi di dosso le impossibilità di sempre, ma anche e soprattutto a misurare se stessa tenacemente, senza risparmio alcuno. Il nero è il suo colore preferito, quello da cui può estrarre milligrammi di felicità, come lei stessa ha annotato a margine di una sua opera , capaci di bucarne la compattezza impermeabile. Le linee, i grovigli di segni e le sovrapposizioni fanno partecipare le forme al miracolo dei colori in equilibrio e armonia tra loro. Ogni tela è una sfida, ogni carta è una costrizione, ma l’opera finita è una vittoria della poesia. Una volta è un minaccioso occhio gonfio che scruta attraverso grinzose chiazze argentate; un’altra un fiore scarlatto, quasi un papavero giunto da chissà quali mutazioni. Oppure spirali di ascesa al vagheggiamento del sacro e composizioni nelle quali gli oggetti fantastici hanno rotazioni ampie, la cui forza centrifuga li proietta fuori dallo spazio, lontani nel tempo. Anche una vaga, acefala figura femminile emerge dalla foresta dei segni, esponendosi senza pudori alla nostra esplorazione inquieta. Le masse dondolano, navigano sopra e sotto la superficie; non trovano un ancoraggio sicuro e a volte deflagrano dalle velature spesse di colore come escrescenze di umido desiderio. L’impressione, spesso, è che ogni cosa possa trovare una collocazione diversa da quella attuale: un opera viva, aperta , in divenire, che l’artista ha organizzato perché il nostro occhio la completi; chiudendo così un cerchio magico di godimento estetico e di riflessione esistenziale. A volte gli scatti sono improvvisi e violenti e a volte le volute si fanno larghe e melmose, ma sempre contengono pause contemplative che lasciano spazio a soste e possibili ritorni. Quadri come brandelli di vita, non oggetti di mera esibizione.
“La vita- disse un tale – è un gomitolo che qualcuno ha aggrovigliato”; il sapere è perennemente sterile se si richiude in se stesso, mentre l’azione dubbiosa sparge intorno a se i semi neri della speranza. Dubitare e agire è vivere sempre, mentre la conoscenza inerte non è altro che presagio di morte. Tutto può essere tentato quando l’anima non è angusta; anche l’arte, vita come infamia, ha il potere di cancellare i giorni contronatura e di lasciare affiorare la poesia. Dopo l’orgasmo dell’azione può venire l’ansia del dubbio e il pentimento per tutte le primavere che abbiamo già fallito, ma agire è comunque imperativo per non soccombere definitivamente. D’altra parte, chi si potrà occupare di noi? Non la morte, che si limita a rosicchiarci l’anima senza interessarsi del resto; non il sapere, che naviga fiumi sotterranei brulicanti di fossili viventi. Nemmeno la realtà si occuperà di noi finchè staremo in questa vita come alberi rassegnati ad un unico modo di essere.
Il desiderio solamente, si occupa di noi di tanto in tanto. Può essere di più o di meno di quanto vorremmo, perché rifiuta ogni unità di misura, ma ci scuote violentemente e ci trasforma, mentre siamo rassegnati o, peggio, inconscientemente contenti. Desiderio e ansia di deviazione verso la poesia, senza troppo curarsi delle fatiche che ciò comporta. Lo sa solo il poeta, l’artista. Il buon artista, come giustamente sottolinea Pollock. Lo sa dunque Wanda Benatti, quando si immerge nel foglio fino a rendere visibili le tenebre. Per questo, oltre che per la sapienza con cui riesce ad organizzare il segno-colore, le sue grandi carte sono geografie di un lucido malessere, a volte dolente, a volte rabbioso, che si tramutano in atto d’amore: corde tese attraverso la realtà, sulle quali si riesce ancora a percorrere la vera vita, quella del sogno finalmente liberato.